La chiusura dei bar al tempo del Coronavirus

Credo che ci voglia un Dio ed anche un bar. Così comincia una canzone di Luciano Ligabue che ha da sempre sottolineato l’importanza dei bar come principali luoghi di aggregazione. Il concetto di bar del cantautore emiliano è, verosimilmente, riferito più al luogo dove consumare un buon Lambrusco che al “posto” napoletano per eccellenza dove “prendere” l’immancabile caffè; resta però l’importanza aggregativa e sociale comune alle due realtà regionali.

Il coronavirus ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, la quotidianità, la socialità, condivisa, si fa per dire, solo dietro il filtro tecnologico. Gli amici si “incontrano” dietro lo schermo di un computer o di uno smartphone, chiacchierano solo grazie ai sistemi di videochiamata. Chiuse le piazze, chiusi i bar, si fa di necessità virtù per sopperire alle restrizioni, necessarie sì ma innegabilmente dolorose, perché fortemente limitative dell’essere umano quale animale sociale.

Non possiamo più ‘prendere’ un caffè con gli amici e non c’è più quella sana complicità, intrisa di ‘ritualità’, non vi sono gli scambi di battute, il complimento, anche se di circostanza, alla cassiera di turno, piuttosto che la chiacchiera sulla squadra del cuore, sul tempo che cambia o sulla più recente decisione politica con il barista, il quale, come il barbiere, è sempre aggiornato, l’ultima certamente non gli può essere sfuggita!

Il mondo è cambiato e continua a cambiare giorno per giorno, decreto dopo decreto, spostandoci verso un confine imperscrutabile. Allo stato abbiamo una certezza: ci manca tanto quella bevanda scura che ci tirava su in qualsiasi momento della giornata e tutto ciò che il momento della consumazione al bar comportava, sappiamo che non possiamo più andare al bar e ci accorgiamo, ora che non l’abbiamo più, di quanto fosse bella quella cosa.

Cosa ci resta adesso? L’attesa, qualcuno direbbe. Intanto passiamo il tempo a rincuorarci affermando che “andrà tutto bene”, ripetendo a noi stessi, come un mantra, “io resto a casa”, e ci consoliamo tra un caffè in capsule e uno in cialda. Poi ti fermi e rifletti e ti domandi: “Ma quando ho cominciato a bere il caffè in capsule?” Fino a ieri eravamo alle prese con il pacchetto da 250 grammi di caffè e la Moka, facendo attenzione a non sporcare niente e improvvisamente ci troviamo con questo piccolo oggetto tra le mani a preparare la stessa bevanda che sorbivamo per tenerci svegli la notte prima degli esami. Allora questo covid, credo, possa insegnarci molto: stiamo attraversando un periodo di interlocuzione, dove tutto sembra immutato ma dove, in realtà tutto sta cambiando. Allora è proprio in questo preciso istante, proprio ora che siamo costretti a guardare il mondo da un oblò – come diceva una canzone famosa – che abbiamo la certezza che… Nulla è per sempre…